mercoledì 4 giugno 2008

Racconto inutile di un bambino.

Nacque. Il primo passo di un uomo, nascere… per molti il primo di una lunga serie, per altri il primo di una serie sfortunata. Lui non predestinato a nessuno dei due: lui era al centro esatto dei due sentieri, al bivio, seduto nel punto in cui le strade sono ancora una ma diventano due. L’infanzia fu particolare, fu un bambino sfortunato. Questo a detta delle signore vecchie ai lati della strada, che guardavano passare la gente sedute su seggiole vecchie quante loro, di legno bianco scheggiato, si stoffa lisa e di imbottitura che aveva conosciuto tempi migliori. Era un bambino normale, secondo i compagni di scuola, secondo quelli che come lui avevano le ginocchia sbucciate e la pancia che doleva per le troppe pesche rubate al fruttaiolo all’angolo. Era un bambino ubbidiente, dicevano le maestre dell’asilo e poi delle scuole elementari, un bambino che faceva tutto quello che gli si chiedeva con prontezza e precisione. Era un bambino intelligente, secondo il vicino di casa che lo teneva quando la madre stava al lavoro e la scuola era chiusa, e che lo vedeva giocare con metodo. Era un bambino speciale, per la madre che lo aveva allevato da sola, per colei che facendo della fatica il suo vessillo da sventolare contro le signore aveva allevato il bambino, e lo aveva allevato nel migliore dei modi che le era consentito. Ma lui cosa era? Lui non sapeva molto di se stesso, troppi erano i giudizi di troppe persone differenti, e troppa era la confusione che aveva in testa. Lui sapeva solo di essere se stesso… una continuità del proprio essere che sapeva gli altri bambini non provavano. Lo aveva chiesto agli amici e ai compagni di classe, e l’unica risposta che aveva avuto in cambio e’ stata uno sguardo vacuo , uno spintone e la merenda rubata da Mario, il bulletto della classe. Aveva anche provato a chiederlo timidamente alla maestra, ma lo sguardo gli aveva fatto capire che forse era meglio evitare e lasciare perdere. Era intelligente, come diceva il vicino… e la maestra decisamente non aveva capito, e lui non sapeva spiegarsi. Il vicino di casa lo stava a sentire distrattamente, quindi anche lui non lo poteva aiutare, se non per domande tecniche alle quali rispondeva con solerzia. La mamma era piena di lavoro, gli voleva bene, ma non poteva aiutarlo, questa era una cosa che voleva il tempo necessario. Alla fine il bambino si rese conto che era meglio lasciare perdere la faccenda… ma crebbe comunque con la convinzione di avere una profonda conoscenza della continuità di se stesso. Lui era sempre presente alla propria mente, era conscio qualsiasi cosa facesse, e riusciva a farla senza distrazioni con una buona precisione. La sua vita fu ne brutta ne bella… crescendo divenne un po’ timido con le donne, il fatto che non avesse avuto un padre un po’ lo metteva sulla difensiva. Si era reso conto che i genitori delle ragazza con cui usciva non vedevano la cosa di buon occhio… ma questo non lo fermo’ dal farsi le sue esperienze a dal trovare una compagna per la vita. Al posto di lavoro fu un bravo libero professionista. Si laureo’, con un modesto ritardo e una buona media, all’università’, e si dedico’ alla professione con coscienziosità. Guadagnò il giusto. Ebbe due figli a 34 e a 36 anni, un maschio ed una femmina: Chiara e Michele, verso i quali fu un discreto padre, aiutato anche dalla splendida compagna che la sorte gli diede in moglie. Passo’ pero’ tutta la vita con la sensazione che in realta’ non era stato capito, che tutti quelli con cui ha avuto a che fare non erano in grado di provare quello che provava lui. La “presenza”, come ormai la chiamava, era per gli altri una cosa fluttuante. Questo lo fece soffrire per tutta la vita, la sensazione che dopo tutto lui era un essere speciale, ma che non poteva essere capito. I suoi stessi figli non erano in grado di comprendere quello che spiegava loro. Rinuncio’ per la seconda volta. Prosegui’ la sua vita fino ai 65 anni: facilmente riassumibile, i suoi figli si allontanarono dalla famiglia di origine, fondandone a loro volta di loro. Litigi e screzi fra le generazioni, ne piu ne meno come da manuale, il pensionamento. Ecco, quello fu per lui un colpo brutto. Da libero professionista si era immaginato di poter continuare la sua vita lavorativa fintanto le forze lo aiutassero, ma si rese conto intorno ai 60 anni che in realta’ quello che non lo aiutava piu era la tecnica: i nuovi professionisti, le nuove leve, usavano con perizia strumenti e nozioni che per lui erano dati dall’esperienza e acquisiti in modo confuso. No, non poteva piu’ competere. Tiro’ avanti altri 5 anni e poi la pensione. Comincio’ a questo punto a chiedersi nuovamente se era speciale, se era l’unico a possedere la “presenza”. Chiese nuovamente e timidamente alla moglie, che sbuffando liquido’ la cosa con un commento che suonava come “speriamo che non sia alzheimer”. Ancora piu timidamente chiese ai figli, durante un pranzo della domenica a casa, ma venne liquidato con una risata e un: “Lo ricordi, Chiara, da piccoli? E’ proprio una fissa, eh papa’. Dai, non pensarci”. Chiese agli amici, meno timidamente in quanto amici, i pochi rimasti, quelli che avrebbero potuto esserci. Anche li, nulla. La madre era morta da tempo, quindi niente da fare. Rinuncio’, per la terza volta. Fu l’ultima. Si spense di attacco cardiaco notturno, due mesi dopo il sessantaseiesimo compleanno, l’unica volta nella sua vita in cui non era presente a se stesso.